Il diritto che maggiormente ha sofferto la larga diffusione di internet è probabilmente il diritto d’autore, non tanto inteso nella sua declinazione morale (non che da questo punto di vista siano tutte rose e fiori: il web pullula di false citazioni, erronee attribuzioni, e appropriazioni di meriti altrui, ma la circolazione delle opere resta ancorata buona misura, anche nella condivisione illecita, al nome degli autori – si pensi alle più diffuse forme di pirateria) quanto sotto il profilo del copyright, (intendendosi con tale termine fare riferimento ai diritti di sfruttamento economico dell’opera), con particolare riferimento opere digitali o digitalizzate.
E se, da una parte, il tentativo di applicare vecchie guarentigie a nuove forme comunicative pare destinato a trovare sempre nuove vie per condursi al fallimento, dall’altro sorgono nuove modalità attraverso cui le opere stesse sono rese fruibili che i titolari dei diritti di sfruttamento economico tentano di ricondurre nell’alveo della tutela loro riconosciuta.
A chiarire uno di questi aspetti dubbi, nel febbraio del 2014, è intervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza Svensson (C-466/12) (che non è una pronuncia isolata, ma è stata confermata successivamente dall’ordinanza sul caso BestWater – C-2315/2014).
Il tema è quanto mai attuale. Si tratta infatti del “diritto di link”, una “nuova” modalità di diffusione delle opere (nuova come il web, non proprio l’ultimo ritrovato tecnologico, diciamo…), già balzato agli onori delle cronache in Italia a causa di un maldestro tentativo di disciplina operato nella “web tax” (che voleva introdurre, tra l’altro, anche un generale obbligo di pagamento per la ripubblicazione dei collegamenti ipertestuali), poi affondata prima del varo dal Consiglio dei Ministri del 28 Febbraio 2014 ma destinata a tornare in auge ciclicamente, dato che se ne è riaffiorata anche nel dicembre del 2015 in seno al dibattito sviluppatosi in Commissione UE in relazione alla modifica del copyright nell’ottica della creazione di un mercato unico digitale.
La guerra dei link: aggregatori contro editori
La sentenza resa muove da un caso peculiare, che riguarda proprio il settore più delicato della comunicazione sul web e della correlata diffusione delle informazioni (coperte da diritto d’autore) attraverso i collegamenti ipertestuali- che consentono di richiamare contenuti ospitati su pagine altrui senza riprodurli – ossia quello del rapporto tra stampa on line e aggregatori di notizie.
Prima di passare a riferire le determinazioni della Corte, sarà bene chiarire alcuni aspetti degli aggregatori, che hanno trasformato il linking in un vero e proprio business, raccogliendo dal web informazioni da più fonti e riproponendole in uno spazio circoscritto. Essi, convenzionalmente, si dividono in quattro modelli, a seconda delle caratteristiche tecniche: aggregatori di feed, aggregatori specializzati, aggregatori curati dagli utenti, e aggregatori di blog.
I primi sono i più tradizionali aggregatori di notizie, come ad esempio quelli associati ai più noti motori di ricerca. Solitamente gli aggregatori recuperano materiale da uno o più siti internet, per poi pubblicarlo con l’espressa menzione della fonte, di un breve passaggio dell’articolo di riferimento e indicando il collegamento ipertestuale che rimanda all’articolo originale.
Due sembrano i problemi che emergono in ordine alla tutela delle opere protette- giornalistiche, nel caso che maggiormente interessa. Il primo riguarda la liceità della citazione operata. Infatti gli aggregatori di notizie fondano la loro legittimazione proprio sul diritto di citazione, sancito dalla Convenzione di Berna e dall’art. 70 della legge 633/41 (“1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).
Sempre l’articolo 70 dispone che il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta.
Quando gli aggregatori operino nel rispetto della normativa ora citata, possono riprodurre anche le opere espressamente riservate. Probabilmente meriterebbe maggiore approfondimento il tema dell’uso commerciale, dal momento che esso fa riferimento a schemi tradizionali in cui si fatica ad inserire le nuove forme di guadagno che si sono affermate sul web, ma non è questa la sede, ci si limiterà ad alcune telegrafiche osservazioni.
I contenuti degli aggregatori, infatti, sono diffusi gratuitamente e agli utenti non è richiesta alcuna forma di pagamento per accedere. Tuttavia è proprio l’accesso degli internauti a consentire al sito di ottenere introiti economici attraverso inserzioni pubblicitarie tanto più remunerative, quanto maggiori sono gli accessi. Per tacere della pubblicità comportamentale e degli enormi guadagni che taluni di essi ricavano dalla profilazione degli utenti –anche se profilazione è un termine quanto mai riduttivo per descrivere il monitoraggio dei navigatori che si opera nei nuovi scenari economici riconducibili ai big data.
Dal punto di vista tecnico, inoltre, essi si avvalgono del deep linking, ossia del collegamento diretto alla pagina interna al sito di origine che riporta la notizia, operazione già giudicata congrua dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in relazione alla peculiarità dell’attività svolta, nel caso Google / Fieg (provvedimento 21959/2011).
Pratica avversata dalla FIEG che rilevava come il sistema di collegamento ipertestuale adottato, riducendo il traffico nella home page delle testate on line, limitasse la visualizzazione di annunci pubblicitari, fonte di guadagno.
Ed è sul terreno della pubblicità che si consuma lo scontro tra aggregatori ed editori. Infatti, a fronte dei ricavi che possono ottenersi in via indiretta (ossia non dal pagamento linearmente connesso alla fruizione degli articoli), anche l’editore può decidere di diffondere gratuitamente i propri contenuti, riservandosene la riproduzione.
Ciò in teoria dovrebbe costringere l’utente ad accedere al sito per leggere le notizie di interesse.
E l’editore potrebbe trasformare gli accessi in introiti pubblicitari, rifacendosi così dei costi di redazione.
Ma il web ha cambiato le abitudini e ha favorito un modello di informazione frammentario e rapido, che viene preferito all’analisi approfondita che sorreggeva il giornalismo cartaceo.
Una parte degli utenti potrebbe non accedere alla notizia, ma fermarsi all’aggregatore. Anche qualora l’utente proseguisse verso il sito originario, non compromettendo i ricavi dell’editore, tuttavia, l’aggregatore si avvantaggerebbe di un contenuto non proprio, senza alcun costo di redazione, dato che non investe nella creazione di contenuti autonomi, ma si limita a citare il frutto del lavoro altrui, senza pagare alcun tipo di licenza.
La preoccupazione degli editori si è appuntata, altresì, sulla riduzione dei guadagni che derivava dal deep linking, che bypassando la home page dove i portali editoriali e le testate on line concentravano le inserzioni più remunerative, comprometteva i guadagni derivanti dalle inserzioni. L’idea di fondo era che l’utente dovesse passare necessariamente dalla home page, e lì indirizzarsi verso i contenuti di interesse. Tali aspetti hanno però progressivamente perso importanza con l’affermarsi della pubblicità comportamentale e con la modifica delle abitudini di navigazione degli utenti, sempre più inclini a navigare attraverso i motori di ricerca a a fruire dei contenuti condivisi sui social bypassando le home page.
Va detto che anche questi aspetti sembrano destinati ad assumere sempre minore importanza, dato che i motori di ricerca hanno riequilibrato in parte i rapporti tra i diversi attori, penalizzando, nella proposizione dei risultati, chi non crea contenuti originali a vantaggio di chi li crea. Tuttavia ciò non ha risolto il problema, ma, invece, ha focalizzato l’attenzione degli editori sui maggiori aggregatori di notizie (è anche vero che alcuni obiettano che la presenza su questi aggregatori aumenti sensibilmente gli accessi agli articoli originari, e che forse sarebbe più corretto prendere atto dell’esistenza di una nuova forma di interazione simbiotica piuttosto che insistere a immaginarne una tradizionalmente parassitaria).
Resta allora la seconda lagnanza degli editori, che si focalizza principalmente sul fatto che dalla aggregazione di contenuti gli aggregatori ricevono profitti, derivanti da introiti pubblicitari e profilazione, senza che siano leniti i costi connessi alla produzione dei contenuti originali e senza che gli editori percepiscano alcuna royalty.
In particolare ci si è chiesti se attraverso il collegamento ipertestuale operato sul sito dell’aggregatore non si configurasse una comunicazione al pubblico, ulteriore rispetto a quella operata sul sito originario e non permessa senza il consenso dell’autore (o dell’editore).
Il caso
Proprio questa è una delle questioni su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Svensson: e la Corte, dopo aver concluso che l’operazione sopra descritta comporta, in effetti, una diffusione al pubblico, ha concluso che tuttavia non vi è violazione del diritto d’autore, in quanto le opere non vengono comunicate ad un pubblico nuovo, ma allo stesso pubblico destinatario della comunicazione originariamente operata dall’editore che ha pubblicato il contenuto.
Secondo la Corte, infatti, “come risulta da costante giurisprudenza, per ricadere nella nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, occorre che una comunicazione, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, riguardante le stesse opere della comunicazione iniziale ed effettuata in Internet come la comunicazione iniziale, quindi con le stesse modalità tecniche, sia rivolta ad un pubblico nuovo, cioè ad un pubblico che i titolari del diritto d’autore non abbiano considerato, al momento in cui abbiano autorizzato la comunicazione iniziale al pubblico (v., per analogia, sentenza SGAE, cit., punti 40 e 42; ordinanza del 18 marzo 2010, Organismos Sillogikis Diacheirisis Dimiourgon Theatrikon kai Optikoakoustikon Ergon, C 136/09, punto 38, nonché sentenza ITV Broadcasting e a., cit., punto 39). Nel caso di specie si deve rilevare che la messa a disposizione delle opere di cui trattasi tramite un collegamento cliccabile, come quello esaminato nel procedimento principale, non porta a comunicare le opere di cui trattasi ad un pubblico nuovo. Infatti, il pubblico cui la comunicazione iniziale era diretta era costituito dal complesso dei potenziali visitatori del sito considerato, poiché, essendo a conoscenza del fatto che l’accesso alle opere su tale sito non era assoggettato ad alcuna misura restrittiva, tutti gli internauti potevano avere liberamente accesso ad esse.
Si deve pertanto dichiarare che, qualora il complesso degli utilizzatori di un altro sito, ai quali siano state comunicate le opere di cui trattasi tramite un collegamento cliccabile, potesse direttamente accedere a tali opere sul sito sul quale siano state inizialmente comunicate, senza intervento del gestore dell’altro sito, gli utilizzatori del sito gestito da quest’ultimo devono essere considerati come potenziali destinatari della comunicazione iniziale e, quindi, ricompresi nel pubblico previsto dai titolari del diritto d’autore al momento in cui hanno autorizzato la comunicazione iniziale.
Di conseguenza, in mancanza di un pubblico nuovo, l’autorizzazione dei titolari del diritto d’autore non è necessaria per una comunicazione al pubblico come quella di cui al procedimento principale.”
Nell’occasione, i Giudici hanno sdoganato anche il framing, ritenendo che il link rivolto ad un sito che pubblichi contenuti senza restrizioni all’accesso, è lecito anche quando “l’opera appare dando l’impressione di essere a disposizione sul sito in cui si trova tale collegamento, mentre in realtà proviene da un altro sito”.
Link non consentiti
A seguire il ragionamento della Corte, infatti, una volta che il contenuto sia stato pubblicato esso sarebbe potenzialmente raggiungibile da qualunque internauta e la ripubblicazione non lo fa giungere ad un pubblico nuovo. Questo, però, non sempre: la Corte prosegue spiegando che invece vi sarebbe diffusione ad un nuovo pubblico ove il contenuto originario fosse stato ospitato in un sito destinato ai soli abbonati (quindi, presumibilmente, a pagamento). Non è lecito “eludere misure restrittive adottate dal sito in cui l’opera protetta si trova per limitare l’accesso del pubblico ai soli abbonati”.
Pare a chi scrive che la locuzione scelta dalla Corte (ma resta il dubbio che si tratti solo di una infelice traduzione che non ha tenuto conto dell’evoluzione del termine originario nei servizi on line) non sia stata chiarissima nel delimitare l’eccezione: infatti il riferimento agli abbonati e non semplicemente agli iscritti al sito pare fare riferimento a un sistema di contenuti a pagamento non semplicemente ad accesso limitato.
Una simile lettura, tuttavia, pare non tenere in adeguata considerazione le dinamiche economiche che sostengono il web, ponendo una equazione tra gratuità e mancanza di guadagni che non tiene conto delle entrate connesse al numero di accessi al sito, anche quando gli accessi siano senza corrispettivo.
È ben possibile che un sito decida di riservare la fruizione dei contenuti ai soli utenti iscritti, ma che, al contempo, mantenga gratuita la registrazione, guadagnando comunque dagli accessi. Come considerare un simile contenuto? Chi lo linkasse effettuerebbe una nuova comunicazione al pubblico?
E’ innegabile che il copyright meriti tutela, ma anche la libera circolazione delle informazioni merita protezione e non occorre solo trovare un adeguato punto di bilanciamento, occorre che tale fulcro sia limpido. La mancanza di una normativa che delimiti il fair use, in un contesto in cui la circolazione dei contenuti digitali è un dato di fatto imprescindibile, è già afflittiva di per sé, e a parere di chi scrive, è un punto a svantaggio di chi desidera una maggiore efficacia della tutela del diritto d’autore. Se non si separa il grano dal loglio, non si distingue cosa è lecito da cosa non lo è, tutto viene percepito indefinitamente lecito o illecito: uno dei problemi che si deve fronteggiare in tema di pirateria on line è proprio la scarsa percezione che hanno gli utenti della connotazione illecita dei loro comportamenti: tutto appare sempre agevole e, quindi, permesso.
Un tema come quello della libertà di link, pertanto, non merita una sentenza interpretabile, (o ancora peggio, una traduzione ambigua) merita un confine lineare. Sottoporre a dazio ogni collegamento ipertestuale sarebbe probabilmente inattuabile e risibile, ma anche limitarne l’uso ammantandolo di incertezza svilisce la libertà di espressione, imbrigliando una modalità di comunicazione che in internet è primaria.
Soprattutto, in assenza di un mercato unico digitale, è ben possibile che un contenuto sia liberamente fruibile entro i confini di una determinata area geografica e sia invece precluso e coperto da copyright in un altro paese. Cosa accadrà a chi diffonda il link per quel contenuto liberamente accessibile in un paese ove, invece, non è liberamente fruibile? Sarà considerata nuova comunicazione al pubblico?
Anche a voler considerare non dubbio il riferimento all’”abbonamento”, reputandolo genericamente riferito a tutte le ipotesi di restrizione (non solo riconducibile, dunque, ai contenuti a pagamento) nel world wide web quale criterio consentirà di individuare un pubblico che i titolari del diritto d’autore non abbiano considerato, al momento in cui abbiano autorizzato la comunicazione iniziale al pubblico?
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