Comincia a circolare, sul web, la sentenza n. 20366 resa dalla Corte di Cassazione, sez. V Penale, in data 15 maggio 2015 chiamata a decidere in ordine a un caso di presunta diffamazione su Facebook a danno di alcuni giornalisti.
Si tratta di una pronuncia non particolarmente significativa dal punto di vista sostanziale e che non sarebbe stata destinata ad avere eco se i fatti non fossero avvenuti sul noto social network; ma questa circostanza le consente di avere una qualche visibilità, potendosi certamente riconnettere a qualche monito da lanciare al “popolo del web”, essere mitologico, allarmante e feroce che nell’immaginario di qualcuno è sempre pronto a commettere qualche reato, nel caso di specie, appunto, la diffamazione.
Il caso
Alcuni giovani postavano sulle proprie bacheche commenti sprezzanti diretti ai giornalisti del luogo dopo che era apparso sulla stampa locale un articolo che narrava di un decesso per overdose.
I giovani venivano quindi accusati dagli autori dell’articolo di diffamazione, assumendo che essi vi avessero preso spunto per i commenti.
II Giudice dell’udienza preliminare pronunciava sentenza di non doversi procedere per insussistenza del fatto, osservando che nei vari commenti non era mai stato menzionato il giornale su cui era apparso l’articolo, né gli articolisti, né il luogo di pubblicazione; inoltre, non c’era alcun specifico riferimento alla notizia commentata con l’articolo criticato. La genericità dei commenti non consentiva, pertanto, di individuare determinate persone “come parti lese”.
Contro la sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione sia dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale sia dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, perché il Giudice dell’udienza preliminare, ai fini di una pronuncia di non luogo a procedere, avrebbe dovuto esprimere una valutazione prognostica in ordine alla “completabilità degli atti di indagine preliminare” e alla “inutilità del dibattimento”, valutazione del tutto assente nella sentenza.
Il Giudizio della Corte
La Corte però rigetta i ricorsi, osservando che: “Sebbene lamentino un vizio di motivazione, i ricorrenti prescindono totalmente dalla motivazione della sentenza impugnata, limitandosi ad affermare un principio di diritto esatto, ma non attinente al caso concreto. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale (…) ha, invero, assolto gli imputati per aver ritenuto che nessuna diffamazione è stata consumata nella specie, per non aver intravisto alcuna correlazione tra i commenti apparsi su Facebook e gli autori dell’articolo pubblicato (…), in quanto quei commenti non facevano alcun riferimento al giornale in questione, né al luogo di pubblicazione dello stesso, né agli autori dell’articolo; inoltre, non contenevano nemmeno riferimenti all’articolo commentato. Per tale motivo i giornalisti (…), e in particolare gli autori dell’articolo (…), non potevano ritenersi diffamati.
Nessuna contestazione di questi argomenti viene mossa coi ricorsi. Pertanto, la possibilità di approfondimento in sede dibattimentale rimane teorica e congetturale, siccome affermata senza specificazione dell’oggetto.”
Nel caso deciso, pertanto, non si pongono problemi in ordine al bilanciamento tra libertà di espressione e lesione dell’onore e della reputazione, né in ordine alla possibilità di valutare la continenza delle espressioni utilizzate, che sono gli aspetti di maggior interesse, in quanto la valutazione operata dal giudicante si arresta innanzi alla impossibilità di individuare le parti lese, e si arrende alla conseguente insussistenza del fatto.
Est modus in rebus
Ciò non significa che sui social network sia tutto permesso, né che sia tutto reato: significa che sui social network, se ancora ci fosse bisogno di ripeterlo, si applicano le stesse regole della vita offline, e forse, più che demonizzarli, paventando una criminalizzazione delle condotte spesso improbabile, bisognerebbe incoraggiarne l’uso consapevole, invitando a prestare attenzione al fatto che quello che scriviamo è destinato a rimanere, che potremmo perderne il controllo e avere un pubblico più vasto di quello al quale pensavamo originariamente di indirizzarlo, e che ciò che diciamo sui social potrebbe dispiegare conseguenze sul piano civilistico o sociale, anche quando non rilevi sul piano penale. Perché il social network non è un diario, un confessionale o un ring, è un mezzo di comunicazione: e se quello che “postiamo” lo esprimiamo nella maniera giusta, consapevoli delle conseguenze che potrebbe comportare, potrebbe persino non avere alcuna conseguenza…
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