“Infandum regina iubes renovare dolorem” è una delle poche frasi che mi si sono stampate in testa ai tempi del liceo, insieme al mio professore che spiegava come alla nostra età il concetto fosse oscuro, ma anche come il tempo ci avrebbe insegnato che esistono dolori che non si possono raccontare, non si trovano le parole. Ed è vero che la vita te lo insegna, prima o poi, il significato di quell’indicibile “infandum”. Ma in quella frase c’era anche l’imperio, un ordine che quel dolore faceva tornare alla luce, e al quale non ci si poteva sottrarre. Ecco, ogni volta che si parla di diritto all’oblio, a me torna in mente quella mattina di sole, e il mio professore di latino che si sforzava di spiegarci un imperativo che costringe a “rinnovare” un dolore che non si hanno parole per dire.
Ho incontrato alcune persone, nello svolgimento della mia attività, che si sforzavano di cercarlo quel comando, e lo trovavano in una riga vuota: la query del motore di ricerca, ove ossessivamente, come una in una folle litania, continuavano a digitare il proprio nome e cognome, aspettando che comparissero quei risultati che, puntualmente riferiti alla prima pagina, li costringevano a fare i conti con un passato che avrebbero preferito dimenticare.
Il diritto di cancellare il passato
So che è una premessa poco tecnica, ma è una visione partigiana che certamente influenza il mio punto di vista, e se ritengo che debba sussistere il diritto di sottrarsi al comando imperioso di un motore di ricerca, che fa riaffiorare ricordi dolorosi o spiacevoli, è perché ho in mente persone qualunque, ossessionate da un dolore antico o da un sentimento che va scomparendo e a cui non siamo più abituati: la vergogna. So anche che il diritto a cancellare il passato potrebbe essere sfruttato da persone note che vogliano far sparire ricordi ingombranti (ci sono anche loro), ma allo stato non si può negare che, con una buona disponibilità economica, assoldando chi se ne intende, anche se non è possibile far sparire i risultati “imbarazzanti” si può farli scivolare verso pagine arretrate del motore di ricerca ove quasi nessuno si avventura. Il motore di ricerca, infatti, non è un’entità granitica imparziale ed equidistante, e non può essere considerato alla stregua di un depositario di verità. E’ uno strumento di business e si presta ad agevolare un contenuto a discapito di un altro.
Quindi non ritengo che il motore di ricerca possa assurgere a intangibile vestale della libertà di espressione, e parteggio istintivamente per chi si trova spalle al muro, inchiodato da una narrazione nemmeno sua, ché Google, a differenza di Didone, non ordina di raccontare, mostra inaspettatamente.
Premesso, quindi, da quale angolo prospettico mi accingo ad inquadrare la materia, preciso che questo contributo non ha l’ambizione di illustrare o chiarire istituti dai confini sfumati, sui quali, da anni, si interroga la migliore dottrina, ma rimarrà in una angolazione pragmatica, limitandosi a dar conto dei problemi che si possono incontrare praticando queste materie e delle soluzioni che si possono adottare.
Diritto all’oblio
A questo punto occorre fare una precisazione necessaria: stiamo parlando di diritto all’oblio? La risposta non è scontata.
La nostra giurisprudenza ha definito il diritto all’oblio come il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata. Il presupposto è che la divulgazione della notizia (o dell’informazione) al tempo fosse legittima sotto i profili di verità, pertinenza e continenza (e già qui si comprende come mal si attagli alla diffamazione; la notizia diffamatoria, infatti, è stata divulgata illecitamente ab origine); che sia decorso del tempo; che in ragione di questo lasso di tempo la pubblicazione della notizia non sia più attuale, né pertinente. Che pertanto, colui che ne venga leso, possa domandare la cancellazione del contenuto non più attuale (attenzione: cancellazione del contenuto, non del link al contenuto!).
Se il diritto all’oblio, da un lato, si presta a tutelare l’identità digitale (ed anche questo è un concetto più ampio di quello di riservatezza e di diritto alla protezione dei dati personali), dall’altro non è sempre agevole individuare, sul web, come si coordini con il contrapposto interesse alla conservazione della memoria sociale, e determinare in quale momento la notizia (o l’informazione) perda il carattere della pertinenza in ragione del decorso del tempo. Non solo: lo scivolamento del diritto all’oblio nell’ambito di applicazione della normativa posta a protezione dei dati personali, ne confonde ancora di più i contorni. Mentre l’azione sul web lo espone al conflitto con la libertà di espressione, altro diritto fondamentale che merita uguale tutela rispetto alla protezione dei dati personali.
La situazione si complica se si considera che il limite posto alla libertà di espressione e al diritto di cronaca e critica è, tradizionalmente, la diffamazione, che, però, come detto, con il diritto all’oblio non c’entra nulla. A livello pratico diventa difficile distinguere la gradazione tra diritti fondamentali e loro promanazioni, e ci si arrocca su posizioni contrapposte, anche riportando istituti tradizionali che non appaiono del tutto calzanti alla fattispecie.
E’ evidente che il diritto all’oblio, nella sua nuova veste di baluardo contro la sovraesposizione mediatica che discende dalla persistenza delle informazioni sul web, sempre facilmente reperibili attraverso i motori di ricerca (capaci di aggregare informazioni diverse intorno ad un’unica query, in modo da costruire in pochi istanti una identità digitale composta anche da notizie risalenti), può prestarsi ad un uso strumentale e distorto, volto a comprimere, in primis, l’attività giornalistica in modo da cancellare la memoria storica.
E’ possibile trovare un punto di incontro tra tanti contrapposti interessi?
Sinceramente non so se sarà mai possibile codificare il diritto all’oblio come strumento di protezione dei dati personali on line, dato che si estende sino alla cancellazione dei contenuti originari, ed è destinato a suscitare un profondo conflitto con la libertà di espressione, potendo incidere sulla memoria collettiva e sulla conservazione delle informazioni per finalità storiche.
Ma è davvero necessario il diritto all’oblio?
Un compromesso: il diritto alla deindicizzazione
La prassi adottata dal Garante Privacy italiano, e prima ancora la regolamentazione della materia (che passa dagli artt. 136 – 139 del Codice Privacy e si estende sino al codice deontologico per l’attività giornalistica ad esso allegato) hanno da tempo offerto una soluzione di compromesso che appare soddisfacente. Infatti, da un lato si opera in via preventiva, evitando la diffusione di dati personali non necessari né rilevanti e si pongono gli stessi limiti individuati dalla giurisprudenza per l’esercizio del diritto di cronaca (cfr, su tutte, Corte cass. I civ. 18 ottobre 1984, n. 5259).
Dall’altro, una volta che la notizia appaia legittimamente diffusa (nel rispetto dei dettami normativi sopra richiamati) ma il decorso del tempo abbia eroso l’interesse pubblico alla sua conoscenza, ecco che si pone il diritto dell’interessato a chiedere a chi ha effettuato la pubblicazione, si badi bene, non la rimozione non del contenuto originario, ma soltanto l’elisione del comando che presiede alla sua indicizzazione. La pagina che contiene il dato personale, pertanto, interrogando i motori “generalisti”, non comparirà più tra i risultati della ricerca, ma sarà sempre presente nell’archivio della testata o del sito (e raggiungibile attraverso il motore di ricerca interno).
Così il contenuto non potrà essere reperito casualmente, ma soltanto attraverso ricerche mirate. Non si cancella la memoria, si evita che l’identità digitale resti impressa da un passato irrilevante, che balza ancora agli occhi degli internauti come un tatuaggio permanente (per usare una metafora autorevole).
Non è una novità…
Tecnicamente non stiamo parlando di oblio: il diritto che viene riconosciuto all’interessato, poggia su canoni noti e consolidati, già presenti nel Codice della Privacy e nella direttiva 95/46/CE: aggiornamento, rettifica, opposizione. Diritti riconosciuti da tempo, che limitano la signoria del Titolare sui dati personali e che costituiscono il cuore pulsante della normativa sulla data protection, incarnando il controllo concretamente esercitabile dall’interessato sul corretto trattamento dei propri dati.
La soluzione ha anche il pregio di sottrarre una volta per tutte l’interessato allo sguardo scrutatore di tutti i motori di ricerca che scandagliano il web, salvaguardando allo stesso tempo l’integrità e la funzione dell’archivio giornalistico, volta a preservare la memoria collettiva.
La normativa riceve una interpretazione estensiva che si adatta ad ogni forma di libertà di espressione, e sostanzialmente è applicabile alle attività svolte su internet anche da soggetti che giornalisti non sono. In questi casi, tuttavia, è più alto il rischio di incorrere nella rimozione del contenuto o nel blocco del trattamento, perché non sempre vengono rispettati i limiti posti in via preventiva.
La sentenza della Corte di Giustizia sul caso Google / Costeja Gonzales
Il sistema funziona, però, solo se il titolare è noto o raggiungibile o comunque sottoposto alla normativa nazionale. Se così non è, soccorre la Corte di Giustizia dell’UE: infatti nella ormai arcinota sentenza Google Spain contro Costeja Gonzalez (resa nella primavera scorsa), dopo aver dichiarato applicabile la normativa Europea, la Corte, muovendo dall’assunto che il motore di ricerca ha una propria banca dati di pagine web che utilizza per ordinare i risultati secondo criteri propri ogni volta che si effettua una ricerca, ha stabilito che Google può essere definito, limitatamente a questo trattamento, Titolare. Infatti, secondo la Corte, l’attività di un motore di ricerca che consiste nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come «trattamento di dati personali», qualora tali informazioni contengano dati personali. In tale ipotesi il gestore del motore di ricerca diviene Titolare del trattamento, poiché le finalità e gli strumenti del citato trattamento sono determinati da detto gestore. Inoltre il trattamento effettuato dal motore di ricerca si distingue da e si aggiunge a quello effettuato dagli editori di siti web, che invece consiste nel far apparire tali dati su una pagina Internet. Dalla applicabilità della normativa e dallo status di titolare, scaturisce che l’interessato può rivolgersi al gestore del motore di ricerca per domandare l’eliminazione del link alla pagina non più attuale, e, qualora questi non voglia dar seguito all’istanza, l’interessato avrà titolo per rivolgersi al giudice o alla Autorità indipendente nazionale che presidia la corretta applicazione della normativa sulla protezione dei dati.
Insomma, applicando la normativa sulla protezione dei dati personali il gestore del motore di ricerca viene ad essere parificato a qualsiasi altro titolare e, come tale, diviene destinatario di istanze ex art 11 e 12 della Direttiva 95/46/CE (art. 7 e ss. del Codice della Privacy).
Anche qui abbiamo un compromesso che da un lato salvaguarda la permanenza della notizia originaria sul sito, mentre dall’altro impedisce a terzi di venirne a conoscenza accidentalmente. Ed anche qui il diritto dell’interessato si radica sull’articolato della Direttiva, in particolare vengono in rilievo il diritto all’aggiornamento e alla rettifica dei dati, tanto che la sentenza, secondo autorevoli commentatori, pare aver declinato i predetti diritti in un “diritto alla soppressione dei link”, piuttosto che nel diritto all’oblio, che imporrebbe la cancellazione della fonte originaria.
Ambito di applicazione
La sentenza, che avrebbe il pregio di fornire tutela in tutte le ipotesi in cui non è possibile imporre la deindicizzazione al sito originario, fonda l’operatività della normativa europea sull’interpretazione della formulazione dell’art. 4 della Direttiva; essa pertanto potrebbe trovare resistenza nel nostro diritto nazionale, data la diversa formulazione scelta per perimetrale l’ambito di operatività delle norme. Insomma, non è detto che dalla applicabilità della direttiva europea discenda, de plano, l’applicabilità della nostra normativa nazionale.
Inoltre, la soluzione proposta dalla CGUE impone più azioni, una verso ogni motore di ricerca che restituisse il risultato inattuale. Ovviamente non è una strada praticabile ove il trattamento operato dal motore di ricerca, pur fruibile dall’Europa, non sia però effettuato nel contesto delle attività di uno stabilimento del titolare del trattamento nel territorio di uno Stato membro; e in ogni altro caso in cui non si ricada nell’ambito delineato dall’art. 4 della Direttiva.
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo
Il bilanciamento così operato tra tutela dei dati personali e libertà di espressione pare non contrasti neppure con le sentenze rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Infatti seppure quest’ultima ha dichiarato che gli archivi sono tutelati dalla libertà di espressione, nella sentenza Times Newspaper Ldt v. UK, ha operato un rilevante distinguo, e dopo aver riconosciuto l’importante ruolo che internet svolge nella divulgazione delle informazioni, rendendole più facilmente accessibili, ha riconosciuto che la permanenza degli archivi on line costituisce un aspetto critico di questo ruolo ed ha accordato maggiore tutela alle pubblicazioni attuali, riconoscendo agli Stati aderenti maggiore discrezionalità nel porre restrizioni in ordine agli archivi.
Anche sotto questo profilo l’equilibrio raggiunto attraverso il bilanciamento operato dalla CGUE, sulla base della normativa esistente, appare utile e coerente, dato che l’indicizzazione esaspera la criticità evidenziata dalla CEDU. Peraltro, ad essere coperta dalla tutela accordata dall’art. 10 CEDU, è la pubblicazione della notizia, ed in subordine dell’archivio, non la sua indicizzazione.
Non solo articoli di giornale
Mi permetto un’ultima considerazione: i contenuti che si vogliono “far sparire dal web”, tuttavia, non sono solo quelli che attengono a notizie o informazioni riconducibili all’altrui libertà di espressione. Ed il caso dello sventurato signor Costeja Gonzalez è emblematico: egli infatti non si opponeva alla pubblicazione di un articolo giornalistico ma alla pubblicità di un provvedimento esecutivo emesso nei suoi confronti circa vent’anni prima, stampato su un giornale per ordine d’Autorità, ed infine trasferito su internet in seguito alla digitalizzazione dell’archivio cartaceo.
Così come altri possono chiedere di essere dimenticati a causa della perdita di controllo conseguente la diffusione di propri dati personali che, originariamente, tuttavia, avevano pubblicato loro stessi.
In simili casi sarebbe più corretto disporre del diritto di cancellare i dati ripubblicati, accordandosi all’interessato un diritto di “ripensamento digitale” simile a quello esistente nell’ambito del diritto d’autore.
In questi casi il diritto all’oblio non troverebbe ostacolo, dato che non pare si possa riconoscere un interesse della collettività a conservare memoria di tali accadimenti.
Anche se potrebbero restare dubbi, nella pratica, e casi limite nei quali sarebbe difficile, soprattutto con riferimento ai personaggi pubblici, distinguere il consueto discrimine tra fatto privato e fatto pubblico, ove una notizia si originasse proprio da un dato personale diffuso dall’interessato stesso (ad esempio il selfie di un uomo politico con un pregiudicato).
E’ sufficiente ciò a comprimere l’interesse del privato alla cancellazione? Non ho una risposta. Tuttavia ritengo che negare il diritto di soppressione dei link per i dati personali non più attuali possa portare ad una sopravvalutazione della notizia, che conduce a imprimere una lettera scarlatta digitale sempiterna sul profilo dell’interessato.
Solo che a differenza della comunità descritta da Hawthorne, ove il senso del sigillo, mai del tutto chiaro, sfumava nella memoria e ognuno poteva attribuire un proprio significato al marchio dell’infamia, nella nostra comunità iperconnessa il fatto risalente viene costantemente riprodotto nei minimi dettagli, anche a chi, con la chiave composta dai dati anagrafici dell’interessato, al motore di ricerca stava domandando, magari, solo un recapito dove poterlo rintracciare.
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